• Mar. Mar 19th, 2024

Apparati critici

  • Home
  • Apparati critici

Giuliano Arnaldi,
Esperto di Arti Primarie e Curatore di Mostre

Filippo Biagioli non è artisticamente analfabeta, nonostante ciò che dichiara: ha visto e studiato l’arte , subisce il fascino del suo tempo, che è il tempo ad esempio di Basquiat, e lo dichiara .Dell’arte moderna conosce i meccanismi, ha seguito per un certo periodo il percorso comune a chi vuole vivere facendo arte: gallerie, mercanti, mostre.
Probabilmente il freschissimo disincanto toscano che lo caratterizza – e la sua straordinaria curiosità insieme colta e ingenua- gli hanno consentito di capire rapidamente che non era storia per lui, e a quel punto ha fatto una scelta, semplice e sovversiva, usando con naturalezza gli strumenti che ogni suo coetaneo ben conosce: ha aperto un negozio virtuale su Ebay, grande suk tribale e globale, e si è misurato con il mondo.
Già questo gesto sovverte, perchè spazza via il carrozzone ipocrita e abitualmente mediocre delle gallerie, dei mercanti, dei critici, ripulisce da ogni incrostazione il rapporto tra chi fà arte e chi ne gode. Filippo ha fatto di più : ha dato al suo lavoro un valore iniziale certo e concreto, proponendolo nelle aste on line con basi di partenza reali pari al costo di un caffè, o al massimo di una pizza. Pensate alle implicazioni in un modo dove Cattelan costa come cinque Tintoretto, dove raramente ciò che si paga per un’opera d’arte coincide con ciò che si realizza dovendo venderla. Quello di Filippo è un gesto di grande presunzione e di grande coraggio, perchè quotidianamente sottopone il suo lavoro al giudizio concreto della realtà: in cambio ne ottiene però un rapporto autentico, tutto costruito sul convinto piacere del godimento quotidiano di un’opera d’arte che entra nel complesso mondo di simboli e di luoghi dell’anima che sono le case autenticamente abitate: arte per ciascuno, e non per tutti.
Inoltre Filippo, più o meno consapevolmente , ripropone un ruolo dell’artista/artigiano antico e insieme modernissimo, simile a quello dei pittori anteriori al ‘500, libero da una personalizzazione esasperata che attribuisce più valore al personaggio/artista che alla sua opera. Un’arte per il terzo millennio, così bisognoso di liberarsi dalla dittatura della mediocrità e dell’ipocrisia.

Elisabetta Rota,
Corrispondente Italia di Flash Art

Filippo Biagioli è uno degli artisti più immediati, spontanei e sinceri che sia dato incontrare e la sua Analphabetic Art è lo specchio fedele del suo limpido e schietto approccio al fare arte: già, nel panorama odierno, appare anomalo e interessante che un artista si autodefinisca, crei in qualche misura una sua corrente, senza interventi “dall’alto” che spesso coincidono con pure operazioni commerciali, ma l’analphabetismo artistico è qualcosa di più di un rigurgito individuale verso lo strapotere del mercato, è soprattutto una ricerca di un punto zero, di una tabula rasa da cui ricominciare a creare senza condizionamenti. Non esiste assolutamente alcuna rivendicazione di ignoranza in questo progetto, anzi il retroterra culturale di Biagioli è ampio e variegato, ma il motore primo è semplicemente la volontà e il bisogno di dipingere senza porsi futili problemi di retroterra, quando troppi artisti si lasciano ingabbiare dalla vana ricerca di un segno originale, che spesso risulta sterile e banalmente ripetitivo. Filippo invece ha scelto la libertà: di materiali, di tecniche, di segno e, soprattutto, la libertà di essere primitivo senza porsi il problema dei tanti che lo hanno preceduto o lo affiancano in questo percorso e il risultato è, naturalmente, personalissimo e unico. Nonostante gli echi evidenti di Graffitismo (Basquiat è non a caso il suo mito), Street Art e, per scavare nella storia, Art Brut, le sue opere sono sempre riconoscibilissime e fortemente identitarie e il suo segno è assolutamente soggettivo nel tratteggiare i momenti di un percorso che si annoda inevitabilmente, come tutta la vera arte, con il suo personale e il suo vissuto più profondo, testimoniato anche dai numerosi autoritratti.
Le sue storie, perché di storie si tratta anche se riassunte in una sola tavola, parlano un linguaggio ibrido e coinvolgente che si nutre alla doppia fonte della contemporaneità e del mito, dove i manga e i mostri giapponesi si intrecciano senza paura con temi classici e archetipici, dove una maschera demoniaca può rievocare insieme l’Africa più profonda, i graffiti preindoeuropei del Dio cornuto e un presente Ciberpunk e dove Medusa, sacra incarnazione della Dea terrifica ben più antica della Grecia, si trasforma con colori acidi e segno nervoso in una graffito da metro, senza nulla perdere del suo serpentino e paralizzante potere. Un altro aspetto estremamente interessante della produzione di Biagioli è l’affioramento palese di stilemi e moduli di un immaginario, primitivo ma cronologicamente piuttosto vicino a noi, quale è quello medioevale, non so quanto sia consapevole o meno questa scelta che, comunque, è un ulteriore indice dell’originalità della sua arte, ma, nella frontalità di certe figure e nella composizione di certe scene di massa e di battaglia piuttosto che nella scelta di alcune tematiche, è indubitabile l’influenza di una certa Arte romanica, soprattutto di quella più popolare o più nordica ed espressionista, affinità sottolineata appieno da un certo horror vacui che il nostro Artista palesa apertamente, riempiendo spesso le parti vuote degli sfondi con particolari curiosi e, soprattutto, con scritte, essenziali e simboliche come i cartigli degli antichi affreschi, sorta di commento e approfondimento velatamente criptico a un immaginario complesso e rigoglioso, declinato comunque sempre con innata sensibilità compositiva e cromatica.
Sicuramente Filippo Biagioli è mosso da un bisogno insopprimibile di esprimersi e il mondo rutilante che crea, divertente eppure talora tragico,sempre vivo e cangiante è uno specchio profondo della sua interiorità, delle sue aspettative e paure, della sua crescita, in sintesi è vera arte, parte di un personalissimo percorso di autorealizzazione che l’Autore vuole condividere con il mondo, vendendo le sue opere sul web, personalmente e al di fuori degli algidi (e avidi) canali tradizionali, e dialogando con il pubblico sul suo sito: Analphabetic Art è, in ultima analisi, arte e vita intrecciate inestricabilmente…….

Ilaria Minghetti,
Giornalista

Dipingere sensazioni,: con rabbia, con amore, con un istinto dovuto al voler essere se stesso. Tutto questo l’anima delle opere di Filippo Biagioli: opere dove le figure “parlano”, comunicano, talvolta gridano il proprio io. Nelle prime opere le figure femminili, prevalentemente nudi, erano le protagoniste indiscusse: figure-specchio dei sentimenti. da queste nata l’esigenza di un figurativo mirato ad una indagine sempre più interiore, idea che ha portato Biagioli a una figura essenziale rappresentata non tanto nella forma, ma nei suoi contenuti più nascoste. Ecco affiorare la disperazione per la solitudine che sempre coinvolge l’uomo di oggi o la condanna per una televisione troppo invadente, ecco “gridati” i valori di liberto la necessità di vivere appieno i sentimenti, ecco la rabbia contro chi impedisce all’uomo di pensare liberamente.

Luisa Facelli
Critica d’Arte

Di Filippo Biagioli piace l’originalità con cui gioca le sue carte vincenti in una sorta di omaggio all’opera di quel geniaccio di Basquiat. Un lusinghiero accostamento.
Dell’ esperienza artistica newyorkese degli anni Ottanta, prese le distanze dalla Pop Art e dall’arte concettuale, la lezione stilistica più feconda è quel neoimpressionismo di cui il pittore di Brooklyn fu personalità di spicco. Ora le suggestioni più intense trasmesse dalle tele di Biagioli discendono da quella cultura, nel senso lato del termine: vi si ritrova il quadro di riferimento del graffitismo, il ritorno alle immagini simboliche ed archetipiche espresse in un “primitivismo” di stampo onirico, visionario, ma al tempo stesso morale nei confronti di un universo depredato e degradato naturalisticamente e umanamente. Di questo giovane artista toscano sarà bene interpretare l’uso singolare dei grafemi: la parola scritta non è puro significante, tant’è che sfugge al decorativismo riempitivo dei modelli americani, invaso da una comunicazione grafica a stampatello, così fitta da risultare antinarrativa e spaesante. La scrittura di Biagioli è più sobria, quasi didascalica, mai autoreferenziale però: indica cose, animali, persone, concetti, con l’inventiva, la freschezza assoluta del mondo infantile, in cui “l’immagine alfabetizzata”, cioè il disegno corredato di parola, diviene un linguaggio. Il fatto che Biagioli parli di “Analphabetic Art”, credo voglia dire questo. E i grafemi? Un lontano sapore etrusco (consonanti e vocali con le lamine di Pyrgi nel dna…) a dirla lunga sulle ascendenze culturali conscie e inconscie: insomma cittadini del mondo, ma con radici ben piantate. Infine omaggio al colore: forsennato di sfondi meravigliosamente gialli, verdi, blu quando Biagioli ci fionda nella sua zoologia reale o fantastica (“Evolution AD”, “Cacciatori di frodo”), con una energia incontenibile, percepita attraverso le colature e il reticolo segnico impregnante la tavola o la tela; black and white, talora, la dimensione coloristica dei volti umani, vuote occhiaie in cui l’ombra di Munch si annida dietro la sagoma urlante di una maschera antigas. Messaggio ricevuto. Forte e chiaro. Non disperante però, finchè il suono saprà ancora farsi musica (“Musicista”) e mongolfiere, velivoli, pipistrelli troveranno ancora chi saprà immaginarli mentre si contendono il cielo. Che è di tutti. Stampato in faccia anche a quegli attoniti tenerissimi adulti, eterni adolescenti coi capelli sparati da cartoons, cui Filippo Biagioli ultimamente si affida, in quanto artista”.

Raffaele Bozzi

Nelle notti, quando la luna gioca a nascondino con le nubi che, or pigre, or spedite si inseguono nel cielo, Filippo sale in vetta alla torre che Castruccio volle in Serravalle tanti e tanti anni orsono. Là, sulla torre antica, leggera una brezza gli accarezza il corpo e lo fa galleggiare sulle pietre segnate dal tempo. Lo sguardo vaga a destra ed a sinistra fra le colline vestite di boschi perenni ove la luce lunare ora nasconde, ora mostra i fusti delle alte robinie o le chiome di possenti querce che piccole radure vuote punteggiano nel loro succedersi.
In questo alternarsi di luci ed ombre che solo il capriccio al rallentatore delle nubi comanda, ecco che d’improvviso il bosco si anima di tante minuscole luci che corrono sorrette da piccoli gnomi dai cappelli con le lunghe punte.
Piccoli flash emergono dai tronchi e dalle chiome fronzute e scoprono uomini e bimbi, cavalli colorati, fiori bombardati, scene e personaggi di favole antiche e moderne, mostri di tempi lontani e perduti.
Magica è l’aria, la notte ed il silenzio sull’antica torre.
Ciò che giaceva nascosto e confuso nella profondità del proprio essere emerge e viene proiettato fra i boschi e le selve vergini che solo la fantasia ed esseri fantastici riescono a violare. Il taccuino della memoria ne conserva i contorni per imprigionarli, infine, fra i colori di una tela fra i ritagli colorati di pezzi di legno, su foto che la realtà della fantasia svelata corregge.
Quando torna a casa , le sue visioni si materializzano, diventano pitture e sculture.
Il fatto che le opere d’arte di Filippo si librino nel loro mondo fantastico ed illusorio non significa che esse non abbiano rapporti con la vita.
Le loro forme sono radicate nei ritmi vitali del processo organico, nascita, sviluppo, declino, morte e contemplano gli umani sentimenti del vivere, tristezza, paura, gioia, dolore, stupore. La separazione dei dipinti e delle sue opere d’arte dalla realtà non le priva di un significato intellettuale né le riduce ad una pura occasione di reazioni nervose. Il pensiero che in esse è racchiuso assume valenza di simbolo e pertanto, è quasi inesauribile. Il pensiero dell’artista non va inteso come l’opposto del sentimento ma come qualcosa che gli è identico e non sono i “fatti”, “la logica della coscienza pratica o discorsiva” a costituire il contenuto, ma l’articolazione delle forme.
Da Platone agli idealisti, l’arte è sempre stata vista come una sovra-realtà in cui convivono sia la “menzogna” del rito, sia la verità della rivelazione. In altre parole, anche l’arte possiede la sua “semantica” fatta di elementi rappresentativi elementari, compreso il colore, sia di vere e proprie strutture che non sempre sono commensurabili con la semantica “strutturale” che regola, in ogni particolare tempo, la Società sia nei suoi valori sociali, sia in quelli scientifici e tecnologici che ne scandiscono i ritmi.
Chi osserva la pittura di Filippo tenta di interrogare ingenuamente il proprio senso, la sua cultura appresa con l’istruzione dalla società in cui è vissuto, i suoi miti, i suoi ritmi come se veramente le figurazioni volessero dire qualcosa e come se il senso, il significato reale potesse essere afferrato mettendo a fuoco nelle sue pupille le immagini.
La pittura di Filippo è “no sense”, eppure il nostro “non sapere” ci affascina. La struttura dell’estetica della visione è tale che una immagine, vincolata ad un certo numero di significati virtuali, perché possa assumere valenza di comunicazione compiuta, deve venire attualizzata da un enunciato.
Perché l’enunciato sia efficace ed utile all’osservatore necessita, oltre alla competenza e percezione di immagine e colore, la conoscenza del mondo e un sapere enciclopedico comune. E proprio l’enunciato “no sense” produce ed attiva una unità di senso elementare che ha la funzione di opporsi all’assenza di senso.
Ciò provoca la crisi dell’osservatore che è costretto ad abbandonare il suo sapere ed ad accingersi a ricercare in se stesso elementi atavici ormai dimenticati.
Il “no sense” della sua pittura pone Filippo lontano dalla descrizione, dalla decorazione, dall’astrazione. La sua pittura è nel mondo dei simboli, delle icone dove il singolo oggetto, ogni “monema”, il più piccolo particolare deve essere analizzato. Filippo gioca con le immagini come il bimbo gioca con le singole parole di una frase completa, talvolta con le singole “parti” di ogni parola, inventando una sua logica della comunicazione.
La sua pittura riesce, così, ad evitare l’accusa di “aporia” che il filosofo Adorno rivolse ai pittori del 900. “Aporetica” fu definita una pittura ed un’arte in generale che, volendo proporre ad una Società che viene criticata e condannata, nuovi modelli ed ideali, è costretta al dubbio ed all’imbarazzo per la contraddizione che la caratterizza nel momento che adopera forme di comunicazione che appartengono alla stessa Società messa alla berlina, a cui si chiede anche l’accettazione-fruizione mercantile.
Tra i personaggi dell’Universo “no sense” di Filippo, non sembrano esistere rapporti di amicizia né di inimicizia; l’amore , l’odio, non hanno luogo in questi contesti. La stessa bellezza, anche quella fisica dei personaggi, degli animali ed anche delle cose, viene totalmente ignorata.
I tratti dei volti e delle cose vengono distorti, i corpi e le forme vengono riarrangiate.
La bellezza e la bruttezza, attributo positivo o negativo dell’”oggetto sessuale” viene davvero bandita perché presuppone quel desiderio di congiunzione – fusione che il ” no sense” esclude? Oltre l’amore anche il piacere, l’odio, il ribrezzo, l’attrazione, subiscono davvero, una anestesia totale che non implichi dispendio emotivo sia da parte dei personaggi che lo attuano o lo subiscono, sia da parte dell’autore e dei fruitori?
Questa perfetta “atarassia”,questa apparente negazione del sentimento che si accompagna al “no sense” della mente nascondono magistralmente, come un vero artista può fare, il messaggio che viene gridato al mondo : se l’uomo vuole partecipare ad un mondo nuovo, senza fame, senza conflitti deve liberarsi delle sue ansie, delle sue paure, deve presentarsi puro, senza condizionamenti ed egoismi. Deve avere il coraggio di liberarsi del suo passato, dei suoi misfatti, di rompere le catene che lo tengono legato ad un mondo dove la sopraffazione e l’egoismo generano ansia e timori. In questo senso la pittura di Filippo è catartica. Nei suoi volti, nei suoi mostri, nei suoi luoghi surreali vi è l’invito ad esorcizzare le paure che sono dentro di noi, i mostri vecchi e nuovi che le nuove relazioni sociali e le nuove mode ed abitudini tendono a tenere in gabbia nel nostro profondo per annullare ogni nostra particolarità personale. Dare realtà alle proprie immagini più segrete,ai propri terrori, alle proprie paure significa recuperare la propria personalità, coscienza e soprattutto la libertà di agire e di pensare. I pensieri più nascosti riacquistano corpo e significato anche se trasferiti da Filippo nei personaggi e nelle immagini delle favole moderne perché proprio nei loro corpi apparenti l’artista nasconde l’anima delle cose vecchie dell’uomo, del bimbo che sta per essere dimenticato. E’ la reincarnazione che si oppone all’oblio, al vuoto, al non essere. La lotta fra il bene ed il male, fra la sofferenza e la gioia si nasconde in ogni quadro ed ogni sua pennellata è una sfida ai nostri occhi che non vogliono più vedere,alla nostra mente che non vuole più pensare, al nostro cuore che non vuole più amare. Filippo e la sua arte appartengono a quel tipo di cultura che intercetta la reazione alla disumanizzazione e cerca di recuperare l’alfabeto primario che, provocatoriamente appartiene al fanciullo non ancora completamente omologato, nel tentativo di costruire una umanizzazione p0arallela alla omologazione virtuale e tecnologica dell’uomo. La libertà si ricerca per timore di perderla, senza necessariamente rifiutare la tecnologia. E’ la paura che non sia l’uomo a scegliere i propri valori culturali, ma la tecnologia che gli sfugge di mano. L’uomo servo del Robot non piace!!! Per questo motivo l’artista crea come feticcio atavico uno stato culturale che tende a sparire con la crescita del fanciullo e con i condizionamenti di una tecnologia sempre più invadente. Il fanciullo che è ancora in noi viene materializzato ed in esso ci rifugiamo quando la nostra fantasia tende ad abbandonarci. I quadri di Filippo sono amuleti e maschere per evitare la per4dita del nostro
IO. Noi crediamo che il linguaggio di un bimbo sia analfabeta,forse sarebbe più giusto chiamarlo “non condizionato”. Nel caso del Biagioli, è provocazione, sberleffo, sfida. La paura è verso se stesso ed il coraggio lo acquista nella sfida da portare agli altri. Dopo una prima fase di sofferenza, di ansia la sua pittura rappresenta la sfida,il gioco dell’artista che “sa” a coloro che “non sanno”.Forse la sua sfida è nata inconsciamente,come bisogno culturale,sublimazione Freudiana ad episodi della sua vita,ma nel tempo in tutte le sue opere affiora una consapevolezza che non tiene a mostrare ma di cui comincia a rendersi perfettamente conto. Come abbiamo già detto,la sua figurazione manca di effetti decorativi per assumere valenza di icona propiziatoria, quasi a ricordare le antiche pitture rupestri che lo sciamano disegnava per materializzare la speranza di una buona caccia, oppure come le maschere rituali della Paupasia e di altri popoli “primitivi”. La maschera supera le debolezze, l’incertezza e l’inadeguatezza del singolo, diventa simbolo, forza, feticcio, talismano collettivo. Filippo Biagioli è lo sciamano che dipinge le figure augurali per il futuro dell’umanità.

Giuliano Arnaldi,
Esperto di Arti Primarie e Curatore di Mostre

le nuove incisioni rupestri di filippo biagioli

Finalmente ho capito cosa evocano in me le foto incise di Filippo Biagioli: l’ho capito lavorando alla preparazione di una missione che faremo a gennaio in Egitto e riferita alle incisioni rupestri dell’oasi di Dahklah.
Il motivo profondo che muove Filippo è lo stesso che ispirava l’azione di altri uomini cinquantamila anni fa. E’ il bisogno della traccia.
Chi fece le incisioni rupestri si muoveva in un mondo fitto di mistero , difficile da comprendere e governare. Era però il “suo” mondo, e l’interazione, prima che una esigenza astrattamente intellettuale, era un bisogno fisico, si potrebbe dire anche psicoteraputico.
Le ansie sulla concretezza della vita quotidiana inesorabilmente si misuravano con il metro delle prospettive di medio e lungo termine in uno scenario dove il grande Mistero – la vita, la morte, la gioia, il dolore..- irrompeva in un attimo nella scansione del tempo quotidiano.
Fino a poco tempo fa abbiamo pensato a quegli uomini come a selvaggi privi di cultura, privi cioè di “quel bagaglio di conoscenze ritenute fondamentali e che vengono trasmesse di generazione in generazione”(wikipedia)
Oggi cominciamo a pensare che il loro linguaggio metaforico, ben precedente al linguaggio fonetico posto come punto d’inizio della civiltà, fosse in realtà altrettanto adeguato, complesso e articolato da essere considerato espressione di cultura . Era diverso il contesto ( non necessariamente più semplice!) ma identica la motivazione : “comprendere perché vogliamo comprendere” ( E.AnatI).
Siamo ripiombati in una incertezza esistenziale diversa da quella dei tempi remonti, ma altrettanto ansiogena; come sempre però un grande problema porta in sé una grande opportunità.
Penso che questa incertezza ci obblighi ad ampliare i nostri orizzonti storico-culturali, e insieme a “circoscriverli” all’ambito della nostra esperienza di individui obbligati a misurarsi con il mondo consapevoli che la mediazione di sovrastrutture fino a ieri onnipotenti ( tecnologiche, geopolitiche, sociosanitare) scricchiola sempre più.
Ecco cosa fa Biagioli: esce dalla sua “caverna” con speranza e timore, obbligato dalla curiosità e dalla responsabilità di vivere, e si misura con il mondo.
Fà esperienza, e lascia una traccia. La sua strada non è disseminata di pietre, non sono queste a definire i contorni nel suo mondo, a dargli significato, a evocare implicazioni con il suo universo valoriale e affettivo: sono le fotografie, i materiali di recupero ( legno, tessuti), e su questi incide, lascia un segno. Come gli uomini di cinquantamila anni fa non è privo di “quel bagaglio di conoscenze ritenute fondamentali e che vengono trasmesse di generazione in generazione”: ha visto Basquiat e Keith Haring, ma deve e vuole andare oltre le pareti dipinte della sua “caverna” o del suo villaggio, perchè i luoghi che conosce sono diventati piccoli, insicuri e pressati da mondi e persone che bisogna conoscere per non esserne sopraffatti.
Definirsi analfabeta come fà Biagioli è in realtà il modo più attuale per praticare l’antico principio di “sapere di non sapere”, e per dichiarare la consapevolezza che abbiamo bisogno di nuovi orizzonti e nuovi linguaggi per sopravvivere ai cambiamenti epocali a cui assistiamo, oltre l’ansia drammatica della testimonianza di ciò che siamo diventati così ben rappresentata dagli utimi artisti dell’altro millennio.
Ma la traccia che Biagioli lascia è poetica, e ciò rende nostra la sua storia a dimostrazione che “ noi siamo della materia di cui sono fatti i sogni.” Una sfida ad essere insieme Prospero, Ariel e Caliban e a tenere gli occhi bene aperti anche nella parentesi che è “ la nostra piccola vita, circondata da un sonno”.